Jacques Gubler | Ordine Architetti di Como
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Jacques Gubler

Conferenza di Jacques Gubler

Critico e storico dell’arte e dell’architettura è professore emerito all’Accademia di Architettura Università della Svizzera Italiana e al Politecnico di Losanna, ha insegnato all’University of Pennsylvania, al Politecnico di Zurigo e al  New Jersey Institute of Tecnology . Numerose le sue  pubblicazioni sull’architettura  moderna e contemporanea, tra le quali: Motion, émotions. Architettura, movimento e percezione, Milano 2014,Cara Signora Tosoni: le cartoline di Casabella 1982-1995, Milano 2005, Nazionalismo e internazionalismo nell’architettura moderna in Svizzera, Milano 2012.

Commissione Cultura: questo è il terzo incontro nel ciclo di Conferenze intitolato Visioni su Como, parte di un lavoro di conoscenza del nostro territorio. È proprio in riferimento alla particolare situazione geografica comasca che abbiamo proposto a Jacques Gubler di sviluppare il tema dell’architettura di confine.

Jacques Gubler: quando mi è stato proposto di partecipare al vostro incontro ho indicato come titolo del mio intervento “ponti con tunnel: sorprese e delusioni tra Como e Chiasso”, ma ora vorrei proporvi come titolo provvisorio “unicità di Como” o “unicità comacina” oppure “elettricità”.
Odio la parola città di confine e la tematica dell’architettura di confine mi rende triste e nervoso, soprattutto quando penso agli esempi di Chiasso e Como. In un’area che potrebbe avere un ruolo di centralità si toccano invece solo due estremità: quella svizzera e quella italiana.
Ho brutti ricordi di Como: la situazione inaccettabile dello stadio a fianco dello stupendo edificio della piscina e i miei tentativi di visitare le collezioni pubbliche riguardanti Alessandro Volta o i pittori astratti degli anni ’30 visibili solo a porte chiuse.
A Como si sente la mancanza dell’istituzione pubblica, l’unica eccezione è la biblioteca. Ho dei ricordi fantastici della biblioteca e forse dopo cinque anni posso immaginare che funzioni ancora. Vorrei invece vedere una pinacoteca civica degna del suo contenuto. A Villa Olmo non sono d’accordo nel fare esibizioni con nomi di grande richiamo, che mi pare un modello provincialista. Perché portare, come fanno gli altri, Picasso, Gauguin, Van Gogh, Monet a Como quando con poca spesa posso andare in un museo europeo a vederli meglio?

CC: Cosa si aspetterebbe di trovare arrivando a Como?

JG: Vorrei vedere a Como ciò che c’è di unico: la memoria, per così dire, voltiana, cioè quanto è collegato con la storia dell’elettricità e non solo. Un modello potrebbe essere quello di Mulhouse e del suo museo della seta.
Alessandro Volta è molto interessante per la storia della fisica successiva alle esperienze di Franklin e al suo trattato sull’elettricità, e insieme a Volta anche altri fisici. Eppure il Tempio Voltiano, quando l’ho visitato, era un cimitero di mosche morte da decenni.
Unendo questo tema a quello del confine trovo un’analogia con la situazione di Ginevra, modello di città internazionale dove esiste il CERN, un altro luogo della tradizione della fisica e dove due italiani, gli Amaldi, fisici romani, hanno sviluppato un laboratorio europeo di ricerca nucleare, realizzando un anello sotterraneo, del quale nessuno si accorge, che passa tra Francia e Svizzera. Siamo sul confine e questa è una centralità.
Ciò mi porta a parlare dell’idea del tunnel: ferrovie e strade di montagna consentono l’esperienza geografica-fisica-emozionale dell’uscire dal tunnel che ti porta da una geografia all’altra, esperienza che coglie il viaggiatore che arriva alla stazione di San Giovanni.
Quasi tutte le città del nord Italia hanno promosso nuovi progetti. Prendiamo l’esempio di Parma: Bohigas ha vinto un Concorso per la nuova stazione; è solo un esempio messo a confronto con la stazione di Como che si apre su una situazione da terzo mondo. Ritorno a Como dopo alcuni anni di assenza, pensavo di vedere dei cambiamenti e ho visto appena qualche piccolo ritocco.
Le infrastrutture in questa zona, tra Chiasso, Como e Milano sono in una condizione di totale abbandono.
A Como bisognerebbe cacciar fuori la tradizione fascista-andreottiano-leghista dello sciovinismo comasco e, riprendendo il discorso mitico dell’arcaismo futurista, guardare al modello della centralità trans-frontaliera come nel caso del CERN di Ginevra.

CC: Quali cambiamenti auspica per la città?

JG: Il primo cambiamento dovrebbe esserci nella stazione che oggi non è ancora città, è fuori dalla città. Uno dei programmi possibili potrebbe essere quello di collegarla al centro, tema che hanno cercato di affrontare in altri luoghi, per esempio Friburgo, Zurigo o Basilea.
Vorrei trovare modernità: sarebbe opportuno fare un bilancio di cosa c’è a Como che non troviamo in nessuna altra città del mondo e ripartire da queste unicità.
Ricordo una trasmissione televisiva della Rai con immagini stupende quando, nel 2004, il Giro di Lombardia partiva da Mendrisio e l’arrivo era a Como scendendo “a tombeau verse” da Brunate sulla città; questo mi fa pensare a Como come una fondamentale tappa turistica uscendo dal tunnel, in un programma che promuova la diffusione della conoscenza dell’unicità di questa città.

CC: In questi ultimi anni è mutato il rapporto tra il lago e gli abitanti. Possiamo considerare ancora come un carattere originale di Como il rapporto tra l’acqua e la città?

JG: Abbiamo visto come il fossato della città medioevale che contorna l’area del castrum romano crei una sorta di osmosi tra il lago e la città. Siamo in una situazione particolare per l’assenza di un emissario a differenza di altri modelli di città europee, per esempio Costanza e Lucerna.
A Como vediamo questa presenza centrale dell’acqua del lago con la quale dobbiamo coabitare, la dimensione geografica del bacino del lago è uno dei momenti unici in questa città.
Il problema principale sembra essere quello politico e riguarda la privatizzazione o no delle “rives du lac” che dipende dalle amministrazioni locali. Cito ad esempio il caso del Cantone di Vaud dove dovrebbe valere il principio del lago come spazio pubblico ma vi sono conflitti con i proprietari per la costruzione di una passeggiata. Dobbiamo, inoltre, pensare che il lago è un bacino nel quale si può organizzare una navigazione per favorire gli spostamenti. Come mai non posso andare da Como a Villa Olmo in battello?

CC: Quali sono le altre unicità di Como?

JG: Il Faro Voltiano e la storia dell’elettricità a cui è collegato: il faro è una commemorazione dell’importanza di Volta, ma oggi è una struttura desolata, eppure dovrebbe veramente essere considerato come un faro, un elemento di collegamento tra la Svizzera e il bacino del Lago di Como insieme al Bisbino, che è pure importante per la storia dell’elettricità. Forse pochi sanno che nella chiesetta del monte Bisbino è conservato uno dei primi parafulmini.
A Como avete avuto un altro scienziato, Giulio Cesare Gattoni, amico di Volta e studioso di elettricità, un personaggio molto strano, allo stesso tempo rappresentante dell’illuminismo lombardo e gesuita. Gattoni e Volta scrivono trattati ma il loro problema è che scrivono in latino e le loro ricerche sono meno conosciute di quelle di Franklin che invece scrive in inglese e viene immediatamente tradotto nelle altre lingue europee.
Un’altra unicità è la presenza del confine, a questo proposito vorrei fare l’apologia del contrabbando. Non è una metafora: il fatto di contrabbandare è molto importante e funziona nel campo dell’arte, della pittura e dell’architettura, copiare vuol dire migliorare le cose già inventate.

CC: Nel nostro lavoro di ricerca abbiamo messo in luce quelle presenze che hanno contribuito a formare un’identità di questo territorio. Le abbiamo chiamate tracce e alcune di esse le ha citate anche lei: le stazioni, le mura, il Baradello, per esempio. Cosa possono ancora rappresentare per la città di oggi?

JG: Collego l’idea delle tracce all’idea di palinsesto: si analizza il manoscritto per trovare un altro testo così in sovrapposizione troviamo due testi. Nel caso della città le tracce segnano la continuità storica, e per Como mostrano che la città medioevale si sovrappone al castrum romano. Si tratta di un fenomeno di densificazione della città, dinamica opposta al fenomeno della città diffusa.
Le tracce entrano anche nel discorso di Carlo Cattaneo e dei geografi urbani. Dobbiamo prendere il patrimonio storico e renderlo visibile, guardare ad esempio alla tipologia della città medioevale come morfologia della città moderna. L’idea della città medioevale è contenuta nel progetto di Gregotti per l’università di Calabria e abbiamo avuto anche altri esempi di architetti che hanno fatto della strada un elemento di progetto.
L’idea è quella di fare un catalogo di queste tracce, un inventario di questi fenomeni che avete riconosciuto e poi operare delle scelte per la loro valorizzazione.
Qui a Como ci sono molte architetture interessanti a partire dagli anni ’20, ad esempio in questo inventario si dovrebbe mettere l’intero isolato che comprende il Novocomum perché l’architettura di Terragni è solo una parte e nessuno va a vedere cosa c’è dall’altra parte dell’isolato.

CC: Una domanda sul tema dell’architettura di confine: quale è il suo punto di vista, come storico dell’architettura, sulle influenze tra le architetture al di qua e al di là del confine tra Italia e Svizzera, Ticino in particolare?

JG:
La problematica potrebbe essere sviluppata, per questo sarebbe interessante chiedere un’opinione ad Alberto Caruso, architetto di formazione milanese, che ha creato la rivista chiamata ARCHI e con il quale ho discusso tante volte cercando di fargli capire che l’idea di architettura di confine non ha alcun senso.
I confini hanno grande importanza in alcuni momenti della storia del territorio come linea di demarcazione tra due paesi che vivono differenti situazioni socio-economiche. Queste situazioni cambiano nel tempo, come dimostra il rovesciamento del rapporto economico tra Como e il Ticino avvenuto alla fine dell’800 con la coincidenza di due fatti importanti: la creazione del vescovato di Lugano e la costruzione della ferrovia del Gottardo. Fino a quella data il vescovo di Como aveva un’importanza politica incredibile ed esercitava un controllo insieme ai proprietari fondiari cattolici.
La linea ferroviaria del Gottardo è stata finanziata da Milano e Berlino per collegare le due città e ha portato a un riequilibrio industriale e al decadimento dell’importanza di Como.
La costruzione dell’autostrada, molto più recente, ha portato alla creazione di una città diffusa che prende avvio dalla metropoli milanese. Il rovesciamento dei ruoli porta oggi al trasferimento di manodopera dall’Italia verso il Canton Ticino.

CC: È vero che il confine è un fatto politico, ma in un certo modo agisce anche sul linguaggio dell’architettura. Superato l’importante episodio del razionalismo, le due aree hanno sviluppato una propria architettura che si arresta sul limite del confine, non va avanti, non passa oltre.

JG: C’è stata una mostra nel 1975 al Politecnico di Zurigo intitolata “Tendenze-Architettura recente nel Ticino” dove si notavano delle posizioni differenti con riferimenti ad esempio all’architettura di Wright, all’architettura nordica e anche all’architettura razionalista.
La Biblioteca Cantonale di Lugano, ad esempio, non può essere capita senza conoscere Terragni. Questo significa che c’è una sensibilità comune che non chiamerei influenza: la parola influenza è una parola molto ambigua, l’architetto guarda i modelli, cita, trova dei riferimenti. Così come esistono delle differenze tra le due aree: nelle maestranze come dice Caruso, nelle normative (la finestra nel bagno che è obbligatoria in Italia), nel modo di usare il cemento armato.
Ma c’è anche una certa identità nell’uso dei modelli e delle fonti. Esistono delle specificità dell’architettura ticinese così come qualche critico ha “trovato” un’architettura dei Grigioni, un’architettura di Basilea e persino un’architettura nella Suisse Romande, sotto il titolo “anche la Romandie esiste”. Identificare questi tipi di specificità fa parte del fenomeno della medializzazione dell’architettura tramite eventi espositivi, come nel caso Biennale di Venezia del 1980 con la Strada Nuovissima di Portoghesi. Medializzazione che da allora è andata avanti ancor più con il fenomeno delle archistar.
Ha senso questa antitesi tra centro e periferia? Dove sono i modelli? Sono in centro? Sono le capitali? E noi cosa facciamo? Siamo dei provinciali? Siamo in periferia?

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