Matteo Vegetti | Ordine Architetti di Como
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Matteo Vegetti

Identità e territorio – Fisionomie lariane
Conferenza a cura di Matteo Vegetti

Dottore in Filosofia, è docente di Estetica al Politecnico di Milano.
Tra le sue pubblicazioni: La fine della storia (Milano 2000), Hegel e i confini dell’Occidente (Napoli 2005), Lessico socio-filosofico della città (curatela, con P. Perulli, Varese 2006), Filosofie della metropoli (curatela, Roma 2009). Insegna Antropologia culturale presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio. Nei suoi più recenti interessi vi è la filosofia politica applicata allo spazio e all’ambiente urbano.

Commissione Cultura: Il ciclo di conferenze Visioni su Como si pone come obiettivo definire la città di oggi e rispondere ai suoi bisogni. Per questo motivo siamo felici che il primo ospite sia un filosofo, Matteo Vegetti.

Matteo Vegetti: Sono onorato del vostro invito a inaugurare il ciclo di studi inerente alla città di Como. Si tratta tra l’altro, a mio avviso, di un’iniziativa necessaria, poiché si inserisce con tempismo in un momento particolare della storia della città. Un momento difficile che investe la “vocazione” di Como, la sua identità urbana e forse la sua stessa collocazione in un contesto territoriale ed economico in rapida trasformazione. Occorre provare ad avere una chiara consapevolezza di questo passaggio critico. Si tratta a mio avviso di ripensare il senso, e dunque l’identità del territorio.

CC: Che cosa intende con “identità del territorio”?

MV: L’identità è di solito intesa come l’essenza di una cosa, come ciò che una cosa è in se stessa, e che permane nel mutamento. Così, per esempio, ognuno di noi ha la propria identità e vi confida tacitamente: un’immagine di sé che raccoglie sinteticamente una molteplicità di caratteri diversi, dall’aspetto del volto all’età, fino alla posizione sociale. Tutti aspetti che normalmente vengono riconosciuti e confermati anche dagli altri (nessuno si dà infatti identità da sé), e che formano il sostrato invisibile del nostro essere ed agire quotidiano. Questo presupposto della soggettività cosciente attrae naturalmente a sé diversi elementi di idealizzazione, ed è dunque sempre soggetto al rischio della frustrazione, ciò che effettivamente accade quando la propria immagine viene posta in crisi.
Tornando alla questione del territorio, sono convinto che molta parte delle discussioni che si tengono circa l’identità dei luoghi trascuri proprio il fatto che l’identità non sia qualcosa di acquisito una volta per tutte, un patrimonio da difendere come valore immutabile. Pensare l’identità in questi termini presenta il rischio tipico dei processi d’idealizzazione – per usare il linguaggio della psicoanalisi – ovvero quello di difendere un’immagine amata sottraendola al necessario e talora doloroso confronto col principio di realtà. Vengo allora al punto: nel rapporto tra abitanti e territorio sono convinto si possa instaurare una dinamica identitaria simile a quella descritta.

CC: Può spiegarci meglio il rapporto tra abitanti e territorio?

MV: C’è un legame identitario (in senso storico, estetico, psicologico) che vincola gli abitanti al loro territorio. Può verificarsi che il territorio muti, come spesso accade sotto la pressione dell’economia e della tecnica, per non dire della speculazione, nell’ipotesi più funesta, e che si stenti a riconoscerlo. Ma può accadere anche l’opposto: possiamo cambiare noi, con le nostre pratiche di vita, le forme della relazione sociale, della comunicazione, del lavoro, mentre il territorio, restando identico a sé, diventa distonico alle attese. Anche questo comporta l’apertura di una ferita identitaria. La difficoltà a riconoscersi nei luoghi, in particolare in quelli cui, come si dice, “si appartiene”, comporta crisi identitarie che possono essere molto lunghe, dolorose, e che talora possono comportare il declino delle comunità o la disaffezione nei confronti del territorio. Questa situazione può degenerare verso due reazioni tipiche: il rifiuto (tipico delle giovani generazioni che se ne vogliono andare dalla loro città natale), o l’idealizzazione storicistica, conservativa, commemorativa.
Come ha notato il grande antropologo Marcel Mauss, i luoghi sono una configurazione identitaria, un’immagine simbolica condivisa, straordinariamente resiliente ai mutamenti.

CC: È condivisibile quindi la definizione di identità di un luogo come insieme di elementi tangibili (strumenti del lavoro, opere d’arte, impianti, infrastrutture e paesaggi) e non tangibili (capitale sociale, saperi contestuali, varietà culturale interna e capacità istituzionale)?

MV: Sono perfettamente d’accordo sull’aspetto materiale e immateriale della conformazione dei luoghi. Ma una cosa è la conservazione del paesaggio fisico, sedimento di pratiche storiche e risorse naturali, altra cosa quella del paesaggio antropologico che, se è vivo, è in perpetua trasformazione. È in questa trasformazione che l’architettura invecchia fino a diventare un guscio vuoto e magari un oggetto archeologico. Una fabbrica è un metodo di produzione che predispone la localizzazione dei soggetti rispetto alle macchine, dalle quali dipende l’ampiezza delle sale, la loro insonorizzazione, le prese di luce ecc. Ma dalla fabbrica dipendevano anche i tempi e i ritmi della città industriale, gli orari delle scuole, dei negozi, la rete del trasporto pubblico. Pure la struttura familiare e i rapporti uomo-donna ne dipendevano in larga misura. Abbiamo visto come questa armonia tra spazio e pratiche di vita si sia dissolta. I monumentali spazi industriali di epoca fordista abbandonati al territorio ci ricordano che ogni ordine sociale, culturale, politico, non può essere preservato dal mutamento, anche se questo porta con sé aspetti critici. L’odierna disseminazione e la molecolarizzazione del lavoro genera per esempio un indebolimento del tessuto sociale. Il mio esempio voleva mostrare che non vi è mai perfetta armonia tra spazio fisico e spazio sociale. Il capitale sociale è mobile, perché è capitale.

CC: Questa sua analisi di crisi identitaria può essere riferita anche al territorio comasco?

MV: Per molto tempo l’identità comasca si è giustamente e orgogliosamente legata all’immagine di una città industriosa e industriale, singolarmente incastonata in un paesaggio unico, ma connessa a un’ampia rete di scambi. Quest’immagine tradizionale, a mio avviso, deve essere necessariamente rivista. Come sappiamo, a causa dei processi della deindustrializzazione e della delocalizzazione, l’impianto industriale e artigianale di Como risulta in chiaro declino. Tra gli effetti tipici di questo fenomeno mi pare si possa registrare la nascita di un’intera generazione di commuters e city users: abitanti che si spostano in altre città – a Milano in particolare o in Svizzera – per lavoro o per godere di opportunità (svago, cultura, consumo) che non trovano nel territorio dove risiedono.

CC: Come pensa potrebbe reagire la città alla situazione che descrive?

MV: Da un certo punto di vista è naturale che in questa situazione di crisi strutturale Como tenti di valorizzare il proprio straordinario patrimonio storico e naturale per attrarre il turismo nazionale e internazionale. Ma non dovrebbero sfuggire i rischi legati a questa scelta, più o meno consapevole. Il primo è quello di creare un feticcio del luogo. Industrialmente sfruttata, l’immagine del territorio produce un effetto di duplice alienazione: alienazione del territorio dalla sua storia vivente e degli abitanti rispetto a questa stessa storia. Se l’identità viene percepita come un plusvalore, più che come un valore, essa diventa infatti una merce. Il turismo come componente economica compensativa presenta in tal senso un costo sociale notevole. Del resto il nemico numero uno dello spazio pubblico è la sua riduzione mono funzionale, perché ne causa l’appiattimento e la prevedibilità, impoverendo il tessuto sociale. La varietà delle funzioni primarie e secondarie serve a mantenere viva la mixité sociale, la diversificazione dei luoghi e delle popolazioni urbane, la dialettica pubblica sul senso stesso della città, la crescita del capitale sociale e culturale.

CC: Nel nuovo contesto geografico ed economico, dominato dalla mobilità e dalle logiche connettive, ci domandiamo se abbia senso interrogarsi sul futuro di Como senza prendere in considerazione un territorio più ampio e complesso; un territorio, composto da un amalgama di economie e società interconnesse, nel quale la città potrebbe riconfigurare il proprio valore e ricontrattare la propria identità.

MV: Come ci insegna la sociologia urbana più recente, è fondamentale la capacità di posizionamento delle città, la capacità di inserirsi come nodi in un determinato territorio sfruttando le potenzialità dei flussi che lo attraversano. Luoghi che furono prosperi possono rapidamente ritrovarsi declassati per effetto delle nuove mappe economico-sociali. Il rischio di Como, a mio avviso, è quello di consegnarsi alla marginalità se non riesce a focalizzare il suo ruolo in una scala geografica più ampia (per esempio quella che si delinea nel famoso “corridoio uno”, che da Berlino arriva a Napoli, passando da Milano e ovviamente da Como, e che risulta essere un nodo cruciale sull’asse Svizzera-Milano). Non occorre neppure aggiungere che per ottenere questa rimodulazione dell’identità geografica e della vocazione economica della città occorrerebbe una governance urbana lungimirante e coraggiosa. Forse anche l’Ordine degli architetti potrebbe dare in tal senso il proprio contributo.

CC: Riferendoci a quanto discusso, sembra evidente che una città non possa vivere esclusivamente della sua memoria.

MV: Infatti, poichè la città non avrebbe un futuro. Ma neppure un presente. E poi chi lo dice qual è la memoria di una città? Esistono sempre più narrazioni di un luogo, spesso in conflitto tra loro. Se invece con “memoria” si intendono le vestigie storiche del passato, ecco che si rischia di musealizzare lo spazio. Ma i musei non sono fatti per essere abitati, ma solo visitati…

CC: Dalle sue parole emerge inoltre il rischio che una città corre vivendo di solo turismo.

MV: Una città che vive di turismo può anche prosperare, almeno per un certo tempo, ma resta dipendente, economicamente e socialmente. Per sfuggire a questa condizione di minorità si possono fare molte cose. L’aspetto delle infrastrutture è fondamentale: oltre a creare condizioni favorevoli allo sviluppo, le distanze cambiano nel tempo la percezione dello spazio. Como inoltre vive sul lago: riutilizzare l’elemento dell’acqua per gli spostamenti creerebbe nuovi scenari. Insieme a una governance lungimirante servirebbero poi una o più specializzazioni che qualifichino la città rendendola attrattiva rispetto a un’economia di sistema.

CC: Ha citato il lago, che ruolo ha secondo lei nella definizione identitaria di Como?

MV: Al di là di ogni considerazione estetica, vi è un aspetto simbolico da rimarcare: la morfologia della città dipende dal lago, il lago è il suo bordo identitario, e perciò non può essere rimosso. La città di Como è rivolta verso il lago, non gli gira le spalle, come Varese. Credo bisognerebbe lavorare sulla soglia di contatto tra queste due presenze continue e forti per ricreare nuove forme di dialogo, non solo visive, tra acqua e terra. La vostra mi pare in tal senso una ricerca preziosa.

CC: La crisi del rapporto tra architettura e urbanistica nella città contemporanea può essere identificata come una delle cause del peggioramento della qualità urbana?

MV: mi pare non vi siano dubbi a riguardo. Sempre più spesso vediamo l’architettura (im)porre degli oggetti senza riguardo al contesto, senza la volontà di stabilire un dialogo, anche polemico, con gli altri edifici e lo spazio pubblico in generale. Certo l’urbanistica è una disciplina in crisi; le trasformazioni territoriali sono troppo veloci oggi per essere disciplinate da un piano, almeno nel senso tradizionale dell’espressione. Di questa condizione critica se ne avvantaggia soprattutto la speculazione edilizia, termine che dovrebbe includere ogni idea costruttiva atta ad assecondare senza remore l’anarchia del capitale e lo sfruttamento cinico dell’intrinseco valore storico e ambientale del contesto.

CC: Vorremmo concludere chiedendole di aiutarci a dare nuova definizione ai luoghi simbolici della città: le mura, le torri, il lungo lago. Nonostante raccontino il passato con il loro impianto, la propria materia o più semplicemente con targhe o simboli commemorativi, essi non hanno una vera e propria identità e forse è possibile considerarli dei “non luoghi”.

MV: Paradossalmente c’è qualcosa di vero in questo. Forse Como soffre di un’identità troppo forte: risente di un eccesso identitario e storico che la rende poco elastica, eccessivamente resiliente ai processi di trasformazione, economica e culturale, che ne attraversano il tessuto sociale.

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